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Editoriali | prof. Ugo Leone | 26 Novembre 2018
Alluvioni e frane
servono 50 miliardi
Alluvioni e frane servono 50 miliardi

Tra chi (sindaci e amministratori locali) afferma di sapere che il territorio e la popolazione da loro amministrata ha bisogno di opere di difesa e tutela dai rischi del sempre più ravvicinato manifestarsi di eventi estremi, ma aggiunge di non avere sufficienti fondi economici per farlo e chi (il capo della Protezione civile calabrese) sostiene che 4 miliardi di euro sono la spesa sufficiente per mettere in sicurezza la Calabria; tra quelli e questo il divario per il Governo non dovrebbe essere difficile da colmare. Anche se passando dalla Calabria che, peraltro, è regione fortemente esposta, arrivassimo a quantificare in una cinquantina di miliardi la spesa per l’intero Appennino. A meno che anche il governo non dica che non ci sono soldi.

Soldi, magari non ce ne sono tanti, ma il problema è soprattutto come si spendono quelli di cui si dispone.

Il punto di partenza dovrebbe essere che questi 50 (più e non meno) miliardi sarebbero una spesa di investimento utilizzabile per far lavorare imprese e persone e per dare al Paese un territorio sicuro almeno per quanto riguarda alluvioni, frane e smottamenti. Forse anche terremoti. Sono soldi moralmente spesi, mentre immorale è non spenderli per prevenire tutto questo, ma tirarli doverosamente fuori a danno avvenuto, dopo aver fatto il calcolo economico (mai anche quello sociale) e aver contato i morti. Con quella che, mi si perdoni l’autocitazione, da anni vado definendo la “politica del rattoppo”. Una politica che tende ad intervenire a disastro avvenuto mettendo pezze e tamponando falle senza mai rimuovere le cause del disastro pronto a riproporsi.

Questa estate è stata “ricca” del “riproponimento” di eventi calamitosi sotto forma di alluvioni e frane.

Per restare nella Calabria che nella parte terminale Giustino Fortunato definiva “uno sfasciume pendulo sul mare, il 20 agosto scorso fu il caso del torrente Raganello nella provincia di Cosenza con 11 morti fra gli escursionisti che facevano rafting (discesa fluviale su gommone). Nei primi giorni di ottobre è toccato alla provincia di Lamezia. Ma l’intera Calabria è stata coinvolta: i fiumi Esaro, Neto e Tacina, Il torrente Umbro gonfiati dalle piogge, sono esondati in alcuni punti. Scaricando acqua e materiali al di fuori di quelli che una volta erano gli argini.

La Calabria è “ricca” di episodi del genere. Se non se ne avesse il ricordo basterebbe andare in un’emeroteca e sfogliare le pagine dei quotidiani. Bastano quelle di inizio autunno per fare un elenco di casi simili a questo. Né solo in Calabria. Tutto l’Appennino ne è coinvolto e lo è sempre più via via che lo “stivale”, passando dalla coscia alla punta, occupa superfici maggiori di territorio: Campania, Basilicata e Calabria, in modo particolare.

Naturalmente, come la legge consente, la drammaticità delle situazioni induce gli amministratori regionale e comunaliad annunciare l'immediata richiesta al Governo della dichiarazione dello stato di calamità naturale. La pioggia è certamente una manifestazione della natura; una pioggia che accumula in poche ore tanta acqua quanta abitualmente ne fa in tre mesi è un evento eccezionale. Ma solo qualche geografo superstite e i geologi della Protezione civile sanno come è fatto il nostro Paese?

Che fare, dunque? Innanzitutto liberare i corsi d’acqua a secco per buona parte dell’anno ma pronti a riempirsi d’acque e tracimare ogni volta che piogge di più o meno inaspettata intensità trasportano con la loro violenze tutte le porcherie che lungo il percorso hanno intasato il naturale scorrimento delle acque.

Certo, rispondono quegli amministratori, ma si può intervenire solo “Compatibilmente con i mezzi economici a disposizione”. E, infatti,soldi per realizzare opere che diano vivibilità all’ambiente e sicurezza al territorio ce ne sono sempre meno e sempre meno ne arrivano dal governo centrale alle amministrazioni periferiche: Regioni e Comuni.

Come che sia i sindaci sono i responsabili della sicurezza, e in questo ruolo sono chiamati in causa l’indomani di un evento disastroso. Come quello che in qualche giorno di violenta serie di nubifragi ha distrutto, sterminandole per decenni, intere foreste e, nelle città, tra l’altro, ha provocato ben 7 morti per caduta di alberi. Alberi che, si dice, non sarebbero caduti se vi fosse stata la loro periodica manutenzione. È vero rispondono sindaci e assessori a questa osservazione, ma “senza i mezzi economici a disposizione…”.

E soldi non ne arrivano. Non ne arrivano. Eppure, dopo  il nubifragio in Calabria, il ministro  dell’Interno Matteo Salvini ha dichiarato che "Nel 2018 non possiamo più permetterci che persone muoiano per colpa del cattivo tempo, un pensiero a tutti i calabresi colpiti da questo tremendo nubifragio e una preghiera".

Un pensiero? Una preghiera?

Una preghiera di “suffragio” per i morti e di aiuto “morale” alle persone sfollate fa parte della carità cristiana. Ma un pensiero non basta. Un pensiero è un mazzo di fiori portato ad una festa. Qui occorre la cinquantina di miliardi che ricordavo all’inizio.

Da dove prenderli? Sottraendoli dalle molte spese di illusorio vantaggio economico messe in bilancio portando il Paese alla procedura di infrazione dalla UE e mettendoli in bilancio per molto più produttive spese di messa in sicurezza preventiva del Paese Italia.

Anche perché, poi, quei soldi che non sono stati messi in bilancio per la prevenzione e manutenzione  si devono necessariamente trovare per risarcire le vittime e riparare i danni. Quanto costa tutto questo? Quanto sarebbe costata la manutenzione? E quale è l’incommensurabile (perché non misurabile) costo “economico” della perdita di vite umane? E quale è la differenza tra spese di investimento e spese di riparazione?

Forse anche la Corte dei Conti questi conti dovrebbe farli e chiamare in causa chi e quanti fanno un danno allo Stato spendendo danaro pubblico in modo superiore a quello che si sarebbe speso per evitare morti e danni materiali. Non solo, ma anche senza rimuovere le cause che hanno provocato vittime e danni che sono pronti a ripresentarsi quando vento e piogge un po’ più violente della norma dovessero riproporsi. E, come dicevo,  si riproporranno.

Certo bufere come quelle di questo drammatico ottobre/novembre nessuno se le ricorda. Il problema è che, magari con violenza diversa, si ripetono e trovano un’Italia sempre uguale: fragile, sguarnita e indifesa. E gli insegnamenti della natura sono come quelli della storia: non se li ricorda nessuno.

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